Il secondo è addirittura più grave perché gioca con il fuoco, attiene più strettamente alla contemporaneità e coinvolge più da vicino le nuove generazioni.
Stiamo parlando del pericolo, ma diciamo pure della certezza viste le manifestazioni di questi giorni nelle università e la retorica politica più andante, che dopodomani vada in scena non tanto il ricordo dei fatti del ‘43 ma il Free Palestine non accompagnato, perché nessuno la vuole più ricordare, anzi la si minimizza e la si oltraggia, alla memoria del 7 ottobre che è stata la strage che ha scatenato altra distruzione.
Potrebbe rappresentare insomma il 25 aprile un momento di pedagogia democratica. Rivolta anzitutto ai giovani, agli smemorati e a chi tradisce quel passaggio storico fondamentale gridando, fuori tempo e fuori contesto, «ora e sempre Resistenza». Ma così non pare essere. E ogni volta la festa della Liberazione viene sottoposta a contaminazioni che non merita. Non bisognerebbe mischiarla con altre vicende, e farne ciò che non può e non dev’essere: un pretesto per parteggiare, appunto, per la Palestina contro Israele (a nessuno viene il dubbio che la questione è intricatissima e non si può ridurla a un fatto di tifoseria?); per chiedere agli ucraini di non fare i partigiani e di arrendersi agli invasori russi (a nessuno viene in mente che se crolla Kiev ne pagheremo le conseguenze tutti, anche quelli che mostrano d’infischiarsi di questa vicenda nella presunzione che non ci tocchi e nella pretesa poco informata che non intacchi la nostra vita tranquilla?); per fare propaganda anti-governativa come se ci fosse una cappa di regime - suvvia l’Anpi, e non solo l’Anpi, ritrovi il senso di realtà! - pronta a scattare, anzi già funzionante, nel nostro Paese destinato chissà perché, per una maledizione deterministica, per un’endemica malattia antropologica, per un destino cinico e baro, a vivere un «fascismo eterno» (proverbiale formula sbagliata di Umberto Eco).
Liberare il 25 aprile da chi vuole stravolgerne il significato è un esercizio essenziale. Ed è un atto di patriottismo costituzionale preservare la specificità di quella tappa della nostra storia contro ogni attualizzazione incongrua e strumentale. L’ideologia stia per una volta ferma al palo. Non s’impicci, non invada, non tenti - come ha sempre fatto e ci risiamo - di cancellare quello che dovrebbe essere il valore portante di questa ricorrenza: la Liberazione come affermazione della libertà per tutti quelli a cui viene negata in questo mondo, nel quale totalitarismi e oscurantismi sono ancora in scena e risultano sempre più aggressivi.
Che cosa c’entra insomma il 25 aprile con la Rai? E che cosa c’entra con Gaza? E a proposito, della proiezione internazionale di questa ricorrenza, perché mai questo anniversario deve diventare il modo per chiedere il cessate il fuoco solo ad alcuni degli attuali belligeranti in Ucraina e non anzitutto a Putin? C’è una retorica sbagliata e una preparazione strabica, nella sinistra che si appresta a scendere in piazza, e una politicizzazione estrema di quello che dovrebbe essere un rito pluralistico: tutto ciò sciupa il 25 aprile e non lo apre a tutti. Anzi lo chiude - chiusura è l’opposto di libertà - nei recinti autoreferenziali delle solite contese politico-militanti, invece di renderlo fruibile a chiunque e disponibile alla comprensione dei più giovani che tanto potrebbero imparare dagli eventi della Liberazione che furono un moto di coraggio e di futuro.
Requisendo il 25 aprile, rinserrandolo nelle polemiche contingenti e sottoponendolo al gioco amici-nemici, non si fa un buon servizio alla crescita culturale del nostro Paese; alla formazione di una coscienza critica e consapevole della storia presso i nostri ragazzi; al processo di miglioramento democratico (la democrazia è sempre work in progress) dell’Italia che dipende anche dalla messa a punto, senza faziosità e in uno sforzo comune di ricostruzione del passato proiettato sul dopo, della memoria nazionale.
Oltretutto nella celebrazione fuorviante, oggi si direbbe distopica, di un 25 aprile attualizzato in chiave medio-orientale si registra un doppiopesismo inaccettabile. Perché non rivendicare anche la liberazione delle donne iraniane perseguitate dalla polizia morale nel loro Paese e delle donne stuprate e prese in ostaggio (insieme a tanti uomini) da Hamas? Perché Gaza sì e Kiev no? Perché concepire la liberazione “à la carte”, minimizzandola per alcuni Paesi e rivendicandola per altri? La doppiezza imbriglia una festa così potenzialmente feconda.
Il 25 aprile dovrebbe essere una giornata di orgoglio per la cultura dell’Occidente, che vive dell’anelito alla libertà, e non l’occasione per sventolare bandierine e per distrarci da noi stessi. Le comunità si rafforzano anche prendendo molto sul serio le date del calendario civile e la giusta concentrazione su queste può avere una funzione di esempio e di trasmissione di valori per le giovani generazioni. Di valori, e non di slogan. O di fantasmi come quelli del fascismo che non c’è.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA