Sulle orme degli stambecchi, viaggio con i guardiaparco del Gran Paradiso

Sulle orme degli stambecchi, viaggio con i guardiaparco del Gran Paradiso
di Marco Berchi
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Domenica 12 Ottobre 2014, 23:02 - Ultimo aggiornamento: 15 Ottobre, 00:32

Stefano, Bruno, Giovanni e Dario stanno andando in ufficio a piedi. Chiacchierano tranquillamente tra di loro, il che li rende già abbastanza diversi dagli altri milioni di pendolari di solito intenti a fissare il proprio smartphone nel frastuono della metropolitana o tra i gas di una tangenziale. Altri elementi di differenza: il percorso casa-ufficio è un sentiero da 700 metri di dislivello, l’ufficio è un’area di svariati ettari tra i 1500 e i 4000 m. di quota, i datori di lavoro sono sì cornuti ma hanno quattro zampe anziché due.

Valsavarenche, Parco Nazionale del Gran Paradiso (Pngp), un giorno dì settembre: il vostro cronista, in silenzio causa fiatone e zaino, arranca dietro a Stefano Cerise, ispettore responsabile della sorveglianza del Parco, Bruno Bassano, veterinario e responsabile del Servizio sanitario, Giovanni Bracotto, caposervizio della vallata, Dario Favre, guardaparco.

L’INCONTRO

Con noi ci sono anche Milena Bethaz, guardaparco in lento e tenace recupero dopo un terribile incidente, e Luisa Vuillermoz, direttore della Fondation Grand Paradis, cui i lettori de il Messaggero devono questa opportunità esclusiva: seguire per due giorni i guardaparco impegnati nelle catture degli stambecchi.

Catture? Quindi violenza, maltrattamenti, sofferenze? Calma, calma. Un passo per volta. Levionaz (2289 m), dove siamo arrivati dopo 90 minuti di cammino è, all’interno del Pngp, l’area elettiva per lo studio degli stambecchi.

Il lungo vallone è popolato anche dalle altre specie “top” del Parco ma qui il re è l’ungulato dalle grandi corna. Mentre Dario prepara una spettacolare pasta al sugo muovendosi da padrone di casa nell’accogliente casotto dotato di doccia calda, frigo e stereo (energia da pannelli e da turbina) che è la casa-ufficio che condivide con un collega da maggio a ottobre («dipende dalla neve»), Stefano e Bruno preparano l’“arma” — uno speciale fucile ad aria compressa al cui uso sono abilitati solo pochi guardaparco — e i “proiettili”, le siringhe cariche di anestetico.

LA PARTENZA

Alle 15 si riparte. Obiettivo, catturare almeno un paio di esemplari maschi e una femmina per marcarli, eseguire i rilievi biometrici e sanitari e completare così il piano annuale di catture di stambecchi nel Parco. C’è, sottotraccia, un pò di tensione; le catture non sono una passeggiata e, anche se gli esiti infausti sono rari (6%) e imputabili a patologie preesistenti o a eventi fortuiti come la caduta in parete dell’animale, il clamore mediatico della triste vicenda dell’orsa Daniza si fa sentire sin quassù, eccome.

Siamo infatti ormai a oltre 2700 m. e i quattro operatori mettono in atto una tattica collaudata: individuato un folto branco di stambecchi, molti dei quali già marcati, li aggirano a tenaglia. Il terreno è impervio ed è impressionante veder muovere gli uomini in scioltezza e quasi senza sforzo fino a individuare l’esemplare giusto.

Il tiro è il momento più delicato: infinite le variabili da considerare in una frazione di secondo. Ma ecco lo stambecco vacillare, la siringa è andata a segno: i quindici minuti che seguono sono degni di un pit stop di formula uno ma sull’erba scivolosa di un pendio a 45°.

LE VISITE

L’animale, completamente sedato, con una mascherina sugli occhi e con la lingua estroflessa, viene misurato in tutte le dimensioni caratteristiche, pesato (una settantina di kg da sollevare a braccia…), visitato dal veterinario che compie anche prelievi di sangue, marcato sull’orecchio o dotato di radiocollare. Ultimo atto, prima dell’iniezione con l’antisedativo, il “battesimo”: Tor e Annibale sono i nuovi nomi di altrettanti maschi catturati nel giro di un paio d’ore. Sono in buona salute e, al termine del pit stop, eccoli risvegliarsi di colpo e di scatto trottare via, tra le rocce.

A sera, attorno a un buon minestrone, i volti tradiscono soddisfazione. Anche perché piove e ciò rende più probabile la discesa di quota delle femmine che sono l’obiettivo di domani e che sino a ieri stazionavano a quasi tremila metri.

Ore 7. Si riparte verso il vallone. «Le femmine valgono 100 punti» esclama Cerise e non è una battuta. «Più sensibili all’accostarsi degli umani, più delicate, più difficili da gestire con la telesedazione». E più lontane da raggiungere, su sino alle pietraie più alte, nebbiose e spruzzate di neve fresca. Il cronista vi si avventura solo con il binocolo e le certezza del successo l’avrà solo quando dalle lenti riuscirà a intravedere il sorriso scarico di tensione dei quattro guardaparco che caracollano lungo il sentiero: il Pngp ha una nuova femmina di stambecco “battezzata”, si chiama Dina.

IL PRANZO

Si festeggia a pranzo con polenta e bistecche cotte sul fuoco di legna, poi fontine e torcetti a ricordare la doppia identità, valdostanza e piemontese, del Parco; ospiti anche due dei giovani ricercatori universitari che trascorrono l’estate nello spartano casotto qui a fianco per condurre ricerche di etologia e biologia. Provette e dati sono pronti per scendere a valle, Cerise e Bassano compilano il rapporto ufficiale, Dario Favre riordina tavolo e stoviglie, mette sotto carica la radio e sistema la legna per la stufa. È solo settembre, per fargli chiudere l’ufficio dovranno venire almeno 50 centimetri di neve.

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