Anna Maria Bernini: «Gli studenti prime vittime delle proteste che bloccano le università»

Anna Maria Bernini: «Gli studenti prime vittime delle proteste che bloccano le università»
di Mario Ajello
6 Minuti di Lettura
Lunedì 20 Maggio 2024, 06:45
Ministro Bernini, non le fa impressione ciò che dice Ultimo, divo e cantautore, in un'intervista nella quale lamenta che «i ragazzi non hanno più punti di riferimento, si stanno addormentando» e chiedono più prossimità da parte delle istituzioni e cultura, una sorta di vicinanza a chilometro zero?
«Ho letto queste osservazioni e non condivido la rappresentazione nichilista del mondo giovanile. Si parla di una generazione perduta che non crede né in Dio né negli uomini ed è completamente smarrita nei social e incapace di pensare a un futuro individuale e collettivo. La mia esperienza, come persona e come ministro, mi dice che non è così. Vedo giovani curiosi, affamati di esperienze, portatori di idee nuove e ricercatori brillanti che s'interessano a quel che accade nel mondo».
Non c'è dubbio però che stiamo parlando di una generazione che sta attraversando un momento epocale. La cultura, l'istruzione, l'università non dovrebbero fare di più per avvicinarli e per formarli?
«Sì, ed è quello che stiamo cercando di fare. Non sottovalutiamo che, negli anni del Covid, i ragazzi hanno vissuto e studiato in una situazione di rottura totale della socialità. Che li ha portati a cercare compensazione nel mondo virtuale. E non c'è dubbio che questa generazione si confronti, al contrario di quelle immediatamente precedenti, con la parola guerra, con la realtà della guerra alle porte dell'Europa. Perciò, a maggior ragione, serve occuparsi con molto impegno della loro condizione psicologica e culturale. Le università sono fabbriche di futuro. E la prima cosa è rendere effettivo il diritto allo studio. Il futuro passa anche per i posti letto e per le borse di studio. Sennò, c'è l'abbandono. Il nostro sforzo è stato poderoso: 1 miliardo e 200mila euro per gli studentati e 880 milioni per le borse di studio. Non è mai stato fatto un investimento di questa portata. Ma fare di più è anche occuparsi con molto impegno della condizione psicologica - vedi l'istituzione dei presidi terapeutici negli atenei - e culturale degli studenti».
Però, ministro, le università sono in rivolta e anche lei, a Pisa, è appena stata contestata.
«Non posso accettare che mi impediscano di parlare, oltretutto in nome del pacifismo e della libertà. Quindi vado avanti e per me quell'occasione di confronto è soltanto rimandata. Tornerò a Pisa la prossima settimana per condividere le mie riflessioni sull'Europa con chi avrà voglia di ascoltarmi».
Gli atenei si sono trasformati nelle casematte del pensiero unico?
«Sono da sempre le casse di risonanza di ciò che accade nel mondo. E' doveroso che al loro interno le idee circolino liberamente e che si possa esprimere qualsiasi opinione, anche la più radicale. Con un unico limite invalicabile: no alla violenza, verbale e fisica. Chi protesta deve sempre ricordarsi che la sua libertà trova un limite in quella degli altri. In particolare in quella degli studenti che hanno il diritto a formarsi e a usufruire dei luoghi deputati all'insegnamento. Libera manifestazione del pensiero critico non può significare prevaricazione. E chi vuole essere ascoltato deve prima essere disposto ad ascoltare. Impedire ad altri di parlare è fuori dal perimetro democratico e se non insegniamo questo ai nostri studenti siamo cattivi maestri».
In un Occidente in cui la cultura ha perso le sue coordinate forti, è spaesata e incerta, incapace di trasmettere un forte messaggio identitario ai suoi giovani, non crede che l'insegnamento universitario debba alzare il suo livello e la sua forza di coinvolgimento dei giovani?
«Il mondo sta cambiando. Stiamo affrontando grandi sfide, che vanno dalle nuove tecnologie ai nuovi modi di concepire i rapporti umani, e come classi dirigenti dobbiamo mettere i nostri ragazzi in condizioni di formarsi per affrontare scenari e mestieri che in parte ancora non esistono. Questo lo si fa dando loro contenuti di vera qualità, multidisciplinarietà, nuove opportunità di conoscenza e dimensione internazionale. Va spiegato ai giovani che la forza dell'impegno, sia nostro sia loro, è infinitamente più efficace dello sconfittismo, dell'apatia, della rabbia. La questione non è quella di dare ai giovani un'identità predefinita. L'impegno delle università, soprattutto oggi, credo sia quello non di proporre concetti identitari ma di garantire una formazione capace di sviluppare personalità e professionalità».
Nel frattempo, però, tanti ragazzi talentuosi fuggono all'estero.
«Stiamo investendo 11 miliardi di euro su settori come il super-calcolo, le tecnologie quantistiche, l'agricoltura tecnologica, le bio-tecnologie, le terapie geniche. Tutto ciò consentirà ai giovani di formarsi nei saperi d'avanguardia, ai cervelli in fuga di tornare e ai ricercatori stranieri di essere attratti. Le faccio un esempio. C'è un bando di gara Ue, che noi speriamo di vincere e su cui il governo punta molto e ha stanziato molto, per la costruzione di un telescopio di terza generazione - il progetto si chiama Einstein Telescope - che capta in maniera super innovativa le onde gravitazionali. Se vinciamo la gara e lo realizziamo in Sardegna, produrrà lavoro, innovazione, benessere, oltre a fungere da attrazione per cervelli di tutto il mondo. I ricercatori sono come le rondini, volano dove c'è sostanza».
Che senso ha l'abolizione del numero chiuso per medicina?
«Un senso molto preciso. Si tratta di una rivoluzione della qualità dell'offerta formativa. Intanto, ci sarà un semestre filtro con esami caratterizzanti che consentirà agli studenti due cose: non giocarsi tutto in un test, cioè mettendo i propri talenti e i propri sogni in un unico tentativo, e formarsi all'interno dell'università e solo sulle materie che saranno oggetto del loro corso di laurea. E comunque, il Parlamento sta lavorando su questa riforma del numero chiuso a medicina. Le segnalo un'altra cosa: il Piano Mattei».
Ma non riguarda l'immigrazione?
«Riguarda il futuro. Che su temi strategici - sicurezza, energia, immigrazione - si gioca anche in Africa. Putin che la destabilizza con la Wagner lo ha capito. E la Cina pure, che investe in infrastrutture. In questo quadro, anche l'università e l'alta formazione sono cruciali per la costruzione di rapporti tra popoli, classi dirigenti, amministrazioni. Quando le classi dirigenti dei vari Paesi, in questo caso del nostro e di quelli africani, sono formate su presupposti, criteri e principi comuni, e parlano la stessa lingua culturale, sono in grado d'interagire in maniera più efficace. Quindi stiamo facendo accordi di collaborazione con le università africane per l'insegnamento dell'italiano, per diplomi congiunti, per scambi di ricercatori e per utilizzo comune di infrastrutture di ricerca. Sono stata in molti di quei Paesi, e sto per andare in Marocco, e vedo una grande voglia di avviare progetti comuni».
Per concludere, torniamo all'inizio: a fronte di tutti questi sforzi, non le sembra che le proteste siano un blocco?
«Nel momento in cui le proteste diventano un blocco all'attività degli atenei, le prime vittime sono gli studenti, a cui viene sottratto un pezzo di futuro. In un mondo così complesso, nel quale devono equilibrarsi tanti diritti e interessi, chi ha il dovere di formare deve fare la propria parte senza paura».
Sta parlando di rettori e professori troppo timidi?
«Sto parlando di tutti noi».
© RIPRODUZIONE RISERVATA