Banda della Uno Bianca, il carabiniere di Spoltore ferito nell'agguato trentatré anni fa: «Un giorno che non riesco a dimenticare»

Il 30 aprile del 1991 Vito Tocci era in servizio di pattuglia a Rimini quando subì l’attentato

Banda della Uno Bianca, il carabiniere di Spoltore ferito nell'agguato trentatré anni fa: «Io, scampato per miracolo»
di Bruno D'Alfonso
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Mercoledì 1 Maggio 2024, 07:00

«Oggi per me è un giorno che non riesco a dimenticare». Sono le parole dell’ex carabiniere Vito Tocci, 60enne di Campo di Giove, che vive a Villa Raspa di Spoltore. Esattamente 33 anni fa lui sfuggì alla furia omicida della Banda della Uno Bianca. In un post sui social, il ricordo indelebile di una data, 30 aprile 1991, quando in un servizio di pattuglia a Rimini subì l’attentato dei banditi e fu colpito da più pallottole sparate da fucili a canne mozze. E quei carnefici erano coloro i quali, ma lo si seppe in seguito, indossavano la divisa dei colleghi della polizia e rispondevano ai nomi dei fratelli Savi. Vito Tocci ricorda quella data e la commemora come fosse un compleanno, una nuova vita dopo aver visto la morte in faccia in quei giorni in cui la famigerata banda seminò sangue e terrore in Emilia Romagna e nelle Marche, tra il 1987 e il 1994, collezionando 24 omicidi e 114 ferimenti. Le gravi ferite riportate quella notte, gli hanno segnato la vita a tal punto che già dal 1998 ha dovuto lasciare l’Arma dei carabinieri perché affetto da disturbo post traumatico da stress con ansia depressiva.

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LA STORIA

Ancora oggi è costretto a sopportare continue cure e terapie, anche per via di un linfoma B da piombo che ogni sei mesi deve monitorare nel reparto ematologia di Pescara. «Non riesco a dimenticare.

Rimani sempre psicologicamente colpito e traumatizzato – spiega l’ex carabiniere scelto, continuando nel racconto dell’episodio drammatico in cui è rimasto coinvolto –. In quella notte del 30 aprile ’91, era l’1,40 quando stavo svolgendo un servizio perlustrativo quale capo equipaggio insieme ai carabinieri Mino De Nittis, alla guida, e Marco Madama. Percorrendo via Siracusa, nel quartiere Bellariva di Rimini, stavamo per transitare in un sottopasso. Lì ci siamo imbattuti nell’agguato della Uno Bianca: sparavano con la chiara intenzione di intrappolarci e ucciderci. Tantissimi colpi esplosi, che ancora mi rimbombano in testa, quasi tutti mirati su di me: ben 7 pallettoni, di cui 4 vicino alla pleura e 3 tra costole e articolazioni. Anche i due colleghi sono stati colpiti, ma con un colpo ciascuno sulla spalla destra. Siamo vivi per miracolo grazie all’abilità dell’autista che con una pronta e forte accelerazione ha consentito di uscire fuori dalla linea di tiro dei malviventi».

IL CLIMA

Un periodo di altissima tensione, in quel periodo e in Emilia Romagna, paragonabile agli anni di piombo. E tante uccisioni proprio di carabinieri come Vito, ragazzi che lavoravano per l’integrità e la sicurezza pubblica e si ritrovarono trucidati a opera di commilitoni che avrebbero dovuto adempiere agli stessi doveri al servizio dello Stato. Solo a gennaio di quello stesso 1991, a Bologna, furono uccisi i tre giovanissimi appartenenti della Benemerita Mauro Mitilini, Otello Stefanini e Andrea Moneta.

L’IMPEGNO

Ora Vito Tocci, che per quell’episodio in cui è rimasto ferito è stato insignito della medaglia d’oro Vittime del terrorismo, si sta battendo per far luce sui tanti episodi di sangue di cui si è macchiata la banda della Uno Bianca, risultando tra i firmatari dell’istanza che a maggio dello scorso ha consentito la riapertura delle indagini. È lo stesso Tocci a spiegare i punti oscuri che hanno motivato la richiesta: «Una banda di cui conosciamo solo gli esecutori materiali, ma siamo convinti dell’esistenza di complici e mandanti. Ed è per questo che abbiamo presentato, vittime e familiari, attraverso gli avvocati Alessandro Gamberini e Luca Moser, un esposto alle Procure di Bologna, Reggio Calabria e della Procura nazionale antiterrorismo, raccogliendo numerosi documenti dai quali si deduce che diverse azioni di sangue compiute dalla banda Savi nascondono altre verità. Ci sono troppi lati oscuri, anche nelle indagini, fogli di servizio delle pattuglie dei carabinieri uccisi che spariscono, testimoni che accusano innocenti e che non subiscono alcun procedimento penale. Una storia piena di depistaggi». Una vicenda che evidentemente fa ancora paura e nasconde, come tanti misteri dell’Italia repubblicana, tante verità inespresse e, soprattutto, non cercate o volutamente occultate.

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