Egitto, il presidente Al-Sisi: «Una nuova rivolta distruggerebbe
il Paese»

Il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi
di Elena Panarella
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Martedì 22 Dicembre 2015, 21:26 - Ultimo aggiornamento: 27 Dicembre, 17:32
Il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi ha chiesto ai suoi oppositori di non scendere in piazza in occasione dell'anniversario della rivoluzione contro Hosni Mubarak il prossimo 25 gennaio, affermando che una nuova rivolta rischierebbe di distruggere il Paese. Sono diversi i gruppi dell'opposizione egiziana, compresi i Fratelli Musulmani, attivisti di sinistra e familiari dei detenuti politici, che hanno fatto appello nei giorni scorsi a una manifestazione di massa per il quinto anniversario della rivoluzione che in 18 giorni rovesciò il regime trentennale di Mubarak.

«Perché sto sentendo di appelli a una nuova rivoluzione? Perché volete rovinare l'Egitto? - si è chiesto al-Sisi - Guardatevi attorno, ai Paesi vicini, alcuni dei quali non voglio nominare, che hanno sofferto per trent'anni e non riescono a risollevarsi. Gli Stati che vengono distrutti non si riprendono». Al Sisi, sposato e padre di quattro figli, eletto l’8 giugno 2014, non ha mai mostrato alcun segno di nervosismo e questo atteggiamento è perfettamente in linea con il modo in cui viene descritto da coloro che l’hanno conosciuto: una persona sicura di sé, tranquilla, di poche parole e schiva. E anche in questa occasione l'appello è rivolto al Paese e per il Paese. E così in un Paese che ha avuto quattro presidenti della Repubblica tra il 1953 e il 2011, e altri quattro tra il 2011 e il 2014, Al Sisi ha compreso il bisogno di stabilità del popolo, ha cercato di rilanciare l’occupazione, tagliando i sussidi che rovinano l’economia del paese e rilanciando al contempo all’Occidente una proposta che non si può rifiutare: fermare il terrorismo islamico in Iraq, Siria e Libia.


Cinque anni fa la miccia. È stato un gesto disperato di un ambulante tunisino ad innescare cinque anni fa la rivolta dei giovani, dando origine ad una serie di manifestazioni in tutta la Tunisia che sfoceranno nella cosiddetta 'Primavera arabà. È il 17 dicembre del 2010 quando il giovane Mohamed Bouazizi si dà fuoco, a Sidi Bouzib nel centro della Tunisia, per protestare contro le condizioni economiche del suo Paese e i soprusi della polizia. Un atto che diviene la scintilla delle rivolte che porteranno al rovesciamento del regime e alla fuga del presidente Ben Ali, inaugurando un'incerta fase transitoria con il timore di una deriva integralista, fino all'elezione del primo presidente del dopo dittatura e all'incubo del terrorismo.

Ma il sacrificio di Bouazizi non è un atto isolato. Diventa un simbolo da imitare in molti Paesi del Maghreb. Il profumo dei gelsomini scuote l'Egitto e la rivolta travolge il rais Hosni Mubarak. Nasce il movimento di Piazza Tahrir. Gli echi della Primavera araba giungono anche in Libia con le prime sommosse popolari stroncate da Muammar Gheddafi. Poi l'intervento militare internazionale e la tragica fine del Colonnello. Ma la speranza di una rinascita democratica si infrange. Il Paese cade ostaggio delle milizie e sprofonda nel caos e nell'anarchia più totale, divisa ancora oggi fra due governi e con la presenza dei jihadisti dell'Isis. Altro discorso per la Siria, scossa anch'essa dal vento delle prime rivolte, ma con il regime di Bashar al Assad che non cede. Il Paese è dilaniato ancora oggi dalla guerra civile, con migliaia i morti, ma soprattutto dalla furia jihadista dello Stato Islamico, dalle rappresaglie dell'opposizione anti-governativa e dalle violenze dei militari di Damasco, fino ai raid della coalizione internazionale. I moti di rivolta echeggiano anche in Yemen, già sconvolto dalle cellule di al Qaida e dalle milizie sciite zaidite Houti, e fanno cadere il Paese in una guerra civile che si trascina fino ai nostri giorni. Minore invece l'impatto dei moti in Mauritania, Arabia Saudita, Oman, Sudan, Marocco e Kuwait.

La comunità internazionale è colta di sorpresa dall'accendersi delle rivolte nel Medio oriente che dopo anni di stallo e immobilismo, vive la sua più grande stagione di cambiamento dalla fine dell'epoca coloniale, cacciando regimi decennali. Ma un anno dopo l'immolazione di Bouazizi cosa è realmente cambiato? I personaggi del Nord Africa, considerati un tempo pilastri inespugnabili di un ordine applicato con il pugno di ferro, ma tutto sommato affidabili partner dell'Occidente, non dettano più legge. Ben Ali è nel suo esilio dorato, per Mubarak si prolunga la questione giuridica, mentre chi resiste è l'algerino Abdelaziz Bouteflika sopravvissuto all'ondata rivoluzionaria. Ma è sul finire del 2011 che si affaccia il timore che il risveglio arabo e i processi di transizione possano essere dirottati dai partiti di estrazione islamista interessati ad acquisire maggior potere in seguito alle ribellioni. E così accadrà in Egitto con i Fratelli musulmani nel 2012, cacciati un anno dopo. 
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